Parlando in termini strettamente giuridici gli interessi sono una particolare obbligazione pecuniaria di natura accessoria che si aggiunge a quella principale, consistente nella restituzione di una somma di denaro al termine di un periodo di tempo prestabilito. Il diritto distingue i diversi tipi di interessi in:
Con tale termine si intende il tasso di interesse fissato dal legislatore, ovvero dal Ministro del Tesoro, con decreto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale (si veda l'apposita tabella); per il calcolo è disponibile l'apposita applicazione riportata qui.
Il tasso di interesse convenzionale è stabilito contrattualmente dalle parti, che lo devono prevedere con atto scritto, se intendono scegliere un tasso superiore a quello legale. In caso contrario gli interessi sono dovuti nella misura fissata dalla legge ex art. 1284 c.c., terzo comma.
Sono gli interessi dovuti dal debitore moroso al creditore e costituiscono una sorta di risarcimento del danno causato dal ritardato pagamento. Essi devono essere corrisposti, anche se non previsti contrattualmente, nella misura del tasso legale, se le parti non avevano pattuito alcun tasso convenzionale prima della messa in mora oppure nella stessa misura del tasso convenzionale precedentemente dovuto.
Gli interessi moratori per le transazioni commerciali sono stabiliti dal legislatore italiano guardando ai tassi di rifinanziamento della Banca centrale Europea e per calcolarli è disponibile su questo sito una specifico strumento di calcolo elaborato dal sito dello Studio Andreani.
Nel caso invece di ritardati pagamenti negli appalti di opere pubbliche si applica una diversa normativa e per questo è stata offerta nel sito un diverso servizio di calcolo.
Il nostro ordinamento giuridico vieta in linea di principio di poter chiedere il pagamento degli interessi di mora, conteggiando nella somma dovuta gli interessi già scaduti (cd. divieto di anatocismo).
L' art. 1283 del codice civile prevede, infatti, che, in mancanza di usi contrari, il creditore possa chiedere il pagamento gli interessi composti scaduti solo dal giorno della domanda giudiziaria o se le parti si erano accordate in tal senso sempreché siano decorsi almeno sei mesi dal momento del mancato pagamento.
La frase in mancanza di usi contrari significa che eventuali prassi possono derogare a questa norma, rendendo di fatto possibile la capitalizzazione sugli interessi.
Questa incertezza ha consentito alle banche, nel corso degli anni, di applicare nella pratica la cosiddetta capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi sui conti correnti in rosso (anatocismo bancario).
Con questo termine si intendeva la particolare prassi bancaria, che prevedeva la liquidazione trimestrale degli interessi a debito e quella annuale per gli interessi a credito.
Questa pratica, oltre a causare un disallineamento fra la maturazione degli interessi passivi ed attivi, costringeva i correntisti a dover pagare gli interessi passivi molto elevati per il fenomeno dell'anatocismo.
Se un correntista aveva, infatti, uno scoperto per 10.000 €, l'istituto di credito gli addebitava ogni tre mesi i relativi interessi, i quali sommandosi alla somma capitale dovuta aumentavano in misura considerevole i successivi interessi a debito.
Le Banche continuarono ad utilizzare tale metodologia di calcolo degli interesssi fino alla famosa sentenza della Corte di Cassazione del 4 novembre 2004, n. 21095, anche se l'art. 25 del Decreto Legislativo n. 342/1999, comma 2, modificando l'art. 120 del D. Lgs. n. 385/1993 (Testo Unico Bancario), aveva previsto la possibilità di stabilire, tramite un'apposita delibera del CICR (Comitato Interministeriale per il Credito e Risparmio), le modalità ed i criteri di produzione degli interessi sugli interessi, maturati nell'esercizio dell'attività bancaria, purché fosse rispettata la stessa periodicità nel conteggio sia dei saldi passivi, sia di quelli attivi.
La sentenza del 4 novembre 2004 n. 21095, delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ha eliminato definitivamente tale prassi, affermando che le clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori precedenti al 1999 non erano mai state rispondenti ad uno uso normativo ma bensì negoziale e quindi contratavano con il principio contenuto nell'art. 1283.
L'uso normativo consiste infatti, come riportato nella sentenza, nella"ripetizione generale, uniforme, costante e pubblica di un determinato comportamento, accompagnato dalla convinzione che si tratta di comportamento giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme a una norma che già esiste o che si ritiene debba far parte dell'ordinamento giuridico".
In altre parole le clausole anatocistiche sono state accettate soltanto perché i correntisti sono stati costretti ad aderirvi per poter accedere ai servizi bancari.
Questo atteggiamento psicologico è quindi ben lontano da quella spontanea accettazione che contraddistingue invece la consuetudine come istituto giuridico.
Nel 2011, in uno dei tanti articoli del famoso decreto 'milleproroghe' del 2010, (Art. 2, comma 61 del D.L. 225/2010), il legislatore interpretava l'Art. 2935 in
senso favorevole alle banche, riducendo drasticamente i tempi di prescrizione, in aperto contrasto con la quasi totalità della giurisprudenza, ivi compresa la Cassazione.
Ma la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 78
del 5 aprile 2012, ha bocciato questa norma dichiarandola incostituzionale, ripristinando di fatto il quadro normativo e giurisprudenziale precedente.